- I pastai italiani: da Russia e Ucraina meno dell’1% del fabbisogno di grano duro per la nostra pasta”
- Quotazioni del grano duro stabili dopo gli aumenti straordinari dei mesi scorsi (+80%), ma la corsa di energia e petrolio mette a rischio la sopravvivenza di un settore fatto da 120 aziende che dà lavoro a oltre 10mila persone.
Roma, 3 marzo 2022 – La guerra tra Russia e Ucraina non mette a rischio la produzione di pasta italiana e non impatta direttamente sui prezzi del primo piatto preferito dagli italiani. Lo affermano i pastai di Unione Italiana Food nel ricordare che il peso di questi due Paesi è estremamente marginale rispetto al fabbisogno del settore di grano duro, la materia prima della pasta. Dall’Ucraina non è stato importato grano duro nel 2021, mentre quello arrivato dalla Russia nello stesso periodo rappresenta meno del 3% delle importazioni e meno dell’1% sul fabbisogno totale dei pastai.
D’altra parte, l’Ucraina è tra i principali produttori di grano tenero, materia prima da cui si ricava la farina utilizzata come ingrediente di pane, dolci, pizza o mangimi per animali. “La confusione tra queste due materie prime ha alimentato un flusso di informazioni contraddittorie nei giorni scorsi. Era necessario fare chiarezza per non creare preoccupazione e allarmismo tra i consumatori”, spiega Luigi Cristiano Laurenza, Segretario dei Pastai Italiani di Unione Italiana Food.
Oltre al grano tenero, ricorda Unione Italiana Food, ad essere interessati dal conflitto sono anche altre materie prime agricole come mais o soia. “In un’economia globale le oscillazioni di una commodity trascinano inevitabilmente le altre, per questo non possiamo purtroppo escludere che il conflitto possa avere effetti indiretti anche sulla pasta”, afferma Laurenza.
Il settore della pasta, che conta 120 aziende, molte di tradizione centenaria, che danno lavoro a oltre 10.000 persone, sta infatti attraversando una crisi senza precedenti. Il prezzo del grano duro è stabile da qualche settimana, ma viene da un aumento dell’80% negli ultimi 12 mesi per l’effetto combinato dei cambiamenti climatici, della speculazione internazionale e della corsa all’accumulo di beni essenziali da parte di alcuni Stati. Senza contare che al rincaro delle materie prime si sono accompagnati, negli ultimi 6 mesi, aumenti dei costi di energia (con un’inflazione in UE sugli energetici di oltre il 28% da inizio anno), petrolio (ai massimi dal 2014) e materiali da imballaggio, che ha costretto le aziende a una serie di sforzi per fronteggiare gli inevitabili aumenti in termini di costi di produzione e di prezzo del prodotto a scaffale.
Inoltre, per lo sciopero dei trasportatori, a febbraio alcune aziende sono state costrette a chiudere temporaneamente le proprie linee di produzione per mancanza delle materie prime o per impossibilità di consegnare il prodotto finito, causando danni per milioni di euro non solo alle imprese ma a tutto il tessuto sociale che ruota attorno a esse.