Di spaghetti, fusilli e maccheroni siamo i più grandi consumatori (con 25 kg pro capite all’anno), produttori e esportatori al mondo. Eppure su pasta e le sue materie prime si fa ancora tanta confusione. Ci stupiamo dell’uso di grano duro non italiano per la nostra pasta, dimenticando che da sempre l’Italia non è autosufficiente per questa coltura: anzi, il deficit attuale (30-40%) di grano italiano è la metà rispetto a 120 anni fa, quando il mito della pasta italiana si costruiva grazie al pregiato grano russo. I dati confermano che il grano estero è controllato esattamente come quello nazionale, spesso costa di più (fino al 10-15%) e negli ultimi anni – al di là degli slogan -mai un campione entrato nel porto di Bari è risultato fuori legge. E ancora, sempre più italiani (il 30%) pensano che una dieta senza glutine – e quindi senza pane e pasta – faccia dimagrire, 1 su 10 che sia più salutare. Ma eliminando il glutine si apportano più grassi nella dieta. E gli esperti sconsigliano di eliminare pane e pasta a meno di essere celiaco.
Un Dossier di AIDEPI – Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane, realizzato con il supporto di esperti di agronomia, nutrizione e pastificazione, racconta agli italiani come stanno realmente le cose su pasta, grano duro e glutenfobia.
“Abbiamo voluto fare chiarezza su alcuni argomenti controversi legati a grano duro e pasta, perché la disinformazione non aiuta il consumatore a fare scelte consapevoli – spiega Riccardo Felicetti, presidente dei pastai di Aidepi. Non bisogna perdere di vista il fatto che la pasta è la base della dieta mediterranea ed è un prodotto sano, gustoso e sicuro, sulla cui qualità garantiscono le aziende che la producono da secoli, trasmettendo il sapere del pastaio di padre in figlio.”
NO AL GRANO ESTERO? VIA DALLA TAVOLA 3 PIATTI DI PASTA SU 10 – Il nostro ruolo di leader mondiali del mercato della pasta ci ha posto, da sempre, tra i Paesi con maggiore fabbisogno di grano duro: attualmente, utilizziamo 5,8 milioni di tonnellate annui, 1/6 della produzione mondiale. Per raggiungere questa quantità mancano alla produzione nazionale circa 2 milioni di tonnellate di materia prima l’anno.
Se venisse prodotta pasta di solo grano nazionale, gli italiani dovrebbero rinunciare a 3 piatti di pasta su 10 e perderemmo il primato di leader mondiale di produzione ed esportazione di pasta, con danni enormi al settore e agli altri comparti trainati dall’export di pasta, come olio, formaggio e pomodoro.
IMPORTIAMO MENO GRANO MA PRODUCIAMO PIÙ PASTA – Le navi cariche di grano che sbarcano in Italia non sono affatto una novità. Anzi, il mito della pasta italiana, anche quella di Torre Annunziata e di Gragnano, si è costruito anche grazie ai grani di altissima qualità russi e canadesi. L’attuale deficit strutturale di grano (circa il 30-40% a seconda dall’andamento climatico) è la metà rispetto al 70% registrato a fine Ottocento. Già allora, nei porti di Napoli, Genova e Bari arrivava un grano la cui provenienza era quasi sempre la stessa: per il 90%, dal Mar Nero, le cui varietà erano tra le più pregiate e costose disponibili sul mercato.
Da allora, l’entità delle importazioni è rimasta stabile attorno ai 2-2,5 milioni di tonnellate di grano duro l’anno: in Italia la superficie dedicata a grano duro è rimasta più o meno la stessa, ma le rese sono almeno triplicate (da meno di 1 tonnellata a 3-4 per ettaro) e allo stesso tempo è cresciuto di molto il fabbisogno. Tanto che la produzione di pasta (3,46 milioni di tonnellate nel 2015, secondo Aidepi) è aumentata di 6 volte negli ultimi 80 anni. E l’export di pasta è passato in 60 anni dal 5% al 58% del totale produzione (1955-2015).
DA DOVE ARRIVA IL GRANO PER LA PASTA ITALIANA? – Il principale fornitore di grano duro è l’Italia, da dove i pastai acquistano il 60-70% del fabbisogno (in pratica, tutto il grano duro nazionale, mantenendo di fatto in vita la filiera), l’origine del restante 30-40% varia in funzione della stagione e della qualità dei raccolti. I grani duri esteri più pregiati possono arrivare a costare anche il 10%-15% in più di quelli nazionali, perché solo i migliori frumenti disponibili sul mercato permettono di realizzare la giusta “miscela”, che è il segreto della nostra pasta.
Alla materia prima nazionale vengono perciò aggiunti, in media, circa 1,8 milioni di tonnellate di grani di altissima qualità e grano di grado 3-4 “or better” (cioè tra il fino ed il buono mercantile) provenienti da Usa, Canada, Australia e Francia.
ITALIANO O STRANIERO? I CONTROLLI SUL GRANO DURO NON CAMBIANO – Straniero o italiano che sia, il grano è sottoposto agli stessi, rigidi controlli da molte istituzioni pubbliche e dalle industrie molitorie e pastarie, prima di immetterlo nel ciclo produttivo. Ad esempio, secondo il rapporto dell’ARPA Puglia di Bari sulla presenza di micotossine negli alimenti tra il 2011 e il 2014, il grano entrato nel porto di Bari negli ultimi quattro anni non ha mai superato i limiti di legge.
“Non esiste alcuna evidenza che i grani esteri siano risultati più spesso positivi ai controlli di quelli nazionali e che solo loro contengano micotossine – afferma Emilio Ferrari, Vicepresidente Italmopa. La soluzione per sostenere il grano duro italiano non è bloccare l’importazione, ma migliorare la produzione nazionale in collaborazione con tutta la filiera, dai genetisti agli agricoltori, agli industriali, col supporto degli enti pubblici”.
GRANI ANTICHI E MODERNI? C’E’ POSTO PER ENTRAMBI- L’industria pastaia italiana utilizza sia grani antichi che moderni, offrendo al consumatore la possibilità di scegliere la pasta in base ai suoi gusti e alle proprie convinzioni. Eppure il crescente interesse verso i grani antichi, ottimi per la salvaguardia della biodiversità e per linee produttive dedicate ad una nicchia attenta di consumatori, ha alimentato una contrapposizione del tutto priva di senso, perché da sempre la storia del grano è fatta di convivenza e commistione tra specie precedenti e nuove varietà. Tanto più che i grani moderni, grazie alla loro elevata produttività (oggi 3-4 tonnellate per ettaro contro meno di 1 tonnellata dell’Ottocento), hanno fatto diminuire in percentuale l’importazione dall’estero salvando la competitività del Granaio Italia, nonostante la strutturale carenza di superfici coltivate (rimasta pressoché invariata negli ultimi 115 anni a circa 1,2-1,3 milioni di ettari).