Le differenze socio-economiche nella dieta derivano quasi del tutto dalla percezione di disponibilità, accessibilità e convenienza del cibo, e non da reali problemi relativi al costo, in sintesi: il buon cibo deve costare di più. È quanto suggeriscono i risultati dello studio che i ricercatori della Deakin University (Australia) hanno svolto su un campione di quasi duemila donne (1850, per la precisione) per scoprire in che misura la disponibilità finanziaria e il costo del cibo influissero sul consumo alimentare.
Ma questo vale anche per la pasta? Con un consumo pro capite di circa 26 chili annui, gli italiani, popolo noto al mondo per tante qualità ma non certo per l’esorbitante ricchezza, sono i più grandi consumatori al mondo. E sono anche primi per produzione, potenzialità produttiva ed esportazioni: il tasso di crescita negli ultimi 10 anni ha registrato un +25%, oggi, ogni 10 piatti di pasta serviti nel pianeta, ben 3 parlano italiano. Addirittura 7 su 10 in Europa. Nel 1955 il 5% della produzione nazionale di pasta era destinato all’export. Nel 2000 la percentuale raggiunse il 47% e oggi ha toccato la soglia del 57%. Con un trend tendente al positivo, occorrono 2 milioni di tonnellate di pasta per soddisfare la domanda dei mercati esteri. L’apprezzamento internazionale dimostra, quindi, che la pasta non solo è buona ma è anche accessibile.
“A rendere vincente la pasta come alimento globale – spiega Paolo Barilla, presidente di AIDEPI – sono le sue caratteristiche intrinseche: ha un gusto che conquista, fa bene ed è alleata del benessere, è un alimento completo e saziante, essendo anche apportatore di proteine. Ed è accessibile a tutti”.